Teorie dello sviluppo

Le teorie dello sviluppo

Prima di studiare nello specifico i fondamenti teorici della cooperazione, rilevandone nel contesto storico la relazione con le correnti di pensiero più significative, appare opportuna una ulteriore classificazione dei principali contributi, ognuno dei quali potrebbe anche collocarsi nello schema precedente:

Teoria della modernizzazione

Questa corrente di pensiero (anni ’50 e ’60), che non costituisce una teoria unitaria ma si compone di eterogenei filoni d’analisi della sociologia e della teoria economica ortodossa, si coagula attorno a taluni elementi comuni.

In particolare:

a) il sottosviluppo viene attribuito a fattori endogeni alle aree arretrate (il modello di società tradizionale);

b) lo sviluppo Ë concepito, in modo evoluzionistico, come un processo per stadi, cumulativo, irreversibile, unilineare e convergente;

c) i modelli di sviluppo proposti hanno carattere fortemente etnocentrico, ovvero fondati sulla preminenza del modello occidentale;

d) le relazioni fra aree hanno comunque natura positiva.

Teoria della dipendenza

In netta contrapposizione ai teorici della modernizzazione, l’approccio dipendentista rileva che l’integrazione dei paesi e delle aree arretrate nel sistema economico internazionale impedisce il loro sviluppo ed anzi acuisce, attraverso vari meccanismi, la loro arretratezza. Lo sfruttamento della periferia avviene attraverso lo scambio ineguale (lo scambio fra prodotti primari a basso costo e merci industriali a prezzi elevati), la penetrazione degli investimenti stranieri (attratti dal basso costo dei fattori e destinati alla produzione di beni primari) ed il ricorso ai prestiti ed agli aiuti internazionali (alla base della crisi debitoria e dell’aggravamento strutturale). In alternativa alle politiche di aiuto ed al modello occidentale di sviluppo, vengono proposte le politiche di import substitution, quelle di self-reliance, un vigoroso interventismo statale ed i processi di integrazione regionale.

World-System Theory

Questa corrente, che si concentra (dalla metà degli anni ’70) intorno al significativo contributo di I. Wallerstein (ma anche di G. Myrdal), si fonda sul concetto di “sistema sociale”, entità (o mondo) economico-materiale la cui autonomia poggia sull’esistenza al proprio interno di un’unica divisione del lavoro.Nell’approccio di Wallerstein, che raccoglie il retaggio positivo della teoria della dipendenza, gli unici sistemi sociali reali sono le piccole economie di sussistenza ed i sistemi-mondo. In particolare, il sistema-mondo moderno coincide con l’economia-mondo capitalistica, articolata in tre aree concentriche, il centro, la periferia e la semi-periferia, tra loro correlate funzionalmente e ciascuna caratterizzata da specifici tipi di produzione, modi di controllo del lavoro e regimi di proprietà. Oltre ai caratteri capitalistici del sistema (scambio di mercato, accumulazione del capitale, ricerca del profitto e natura espansiva), in questa teoria assume un ruolo centrale, per la riproduzione allargata del sistema, la destinazione al centro del surplus prodotto nella periferia.

Nuova economia politica comparata

In posizione critica rispetto alle teorie precedenti, fra gli anni ’70 ed ’80, si sviluppa una corrente variamente articolata nei suoi interessi, nella quale tuttavia si delineano elementi comuni sia sotto il profilo metodologico, che dei contenuti.In tale approccio, infatti, l’analisi si fonda sul ricorso alla comparazione, sull’uso di strumenti di misurazione quantitativi e qualitativi e sull’impiego critico e selettivo di combinazioni degli elementi teorici offerti dalle altre teorie. Circa i contenuti, gli interessi teorici si concentrano soprattutto sulla differenziazione dei modelli di sviluppo, sullo studio dei rapporti fra classi e strati sociali, nonché sul ruolo e sulle funzioni dello Stato, sia nei paesi avanzati che nei Pvs.


LO SVILUPPO IN PROSPETTIVA STORICA


Il concetto di sviluppo ha rappresentato negli utlimi 60 anni la base su cui le politiche economiche e sociali del dopo-guerra sono state impostate. La caratterizzazione egemonica del concetto è stata essenzialmente strutturata attorno alla equazione sviluppo uguale crescita economica. A tal proposito è utile ricordare che il dibattito nell’ambito dei nascenti studi sullo sviluppo era esclusivamente legato alle analisi sulle direzioni e strategie della crescita economica e gli ostacoli che la sua “naturale” espansione incontrava. La centralità della crescita economica come precondizione per strutturare processi di sviluppo è ulteriormente rivelata dal nesso strutturale tra quest’ultima e le strategie di riduzione della povetà.
L’argomento più in voga nell’ambito delle caratterizzazioni mainstream è quello espresso dalla teoria degli stadi della crescità di W.W. Rostow (1971). Nella sua analisi lo sviluppo è declinato in stadi economici che si susseguono, come una sequenza razionale,che, grazie alla spinta degli investimenti di capitale trasforma le condizioni del sottosviluppo in condizioni di consumo di massa.
Tale interpretazione meccanicistica e teleologica dello sviluppo che assume in maniera astratta che i befici della crescita sarebbero “sgocciolati” verso altri settori della popolazione, è stata aspramente criticata teoreticamente e sconfessata dalle analisi empiriche.
In termini teorici scienziati sociali appartenenti alla scuola della dipendenza e all’analisi dei sistemi mondo hanno, invertendo il modello di modello di spiegazione causale, definito lo sviluppo come un processo che intrinsicamente genera sottosviluppo – the development of underdevelopment (Frank, 1972) – evidenziato le gararchie della divisione internazione del lavoro in cui le periferie sono inserite ed incorporate in posizione subordinaata nei circuiti del commercio internazionale.
In termini empirici, le stesse parole dell allora presidente della banca mondiale McNamara (1968-1980) attestano il fallimento di due decadi di sviluppo in cui le diseguaglianze ed i livelli di povertà sono aumentati, sebbene in maniera ineguale e differenziata, nonostante il fatto che quegli anni avessero rappresentato, ad esempio per le popolazioni Africane, anni di liberazione dal giogo coloniale.
L’ottimismo manifestato negli anni delle independenze dai leader delle elites nazionali africane circa le potenzialità di colmare il gap economic con i paesi occidentali si è scontrato con l’evidenza dell’ineguale incorporazione dei paesi africani nelle logiche di un sistema globale di relazioni di potere e di accumulazione capitalistica.
Le economie africane strutturate, in seguito al lascito coloniale che aveva sviluppato le cosiddetee economie di enclave, attorno allo sfruttamento di monocolture per l’esportazione o di altre risorse naturali sono cosi divenute facili prede delle logiche del mercato capitalistico, fatto di crescita e depressione, dipendeza dal mercato per una serie di input produttivi, fluttuazione dei prezzi, oligopoli e corporazioni multinazionali.
A tal proposito Philip McMicheal definisce il “progetto sviluppo” come un processo politico su scala globale atto a ricostruire le fondamenta del mercato globale distrutto nell’epoca delle due guerre e della depressione, e di quel terreno politico necessario ad estendere le sue relazioni gerarchiche e di potere. In questo senso la politica di classe, che, sta alla base di questo progetto su scala globale e che si esprime attraverso alleanze e strategie transnazonali che non hanno più nello stato il loro unico attore, diventa un focus privilegiato per cogliere le diramazioni della pratica e teoria del concetto di sviluppo.
Nella sua visione il progetto sviluppo precede e confluisce nel progetto globalizzazione. Le due ideologie si influenzano a vicenda sebbene importanti cambiamenti nel ruolo dello stato, nell’equilibrio geo-politico e geo-economico e nella profondità dei processi di mercificazione, abbiano caratterizzato le due differenti costruzioni.
Negli anni 80 a seguito della crisi economica globale guidata dall’aumento del prezzo del petrolio e dal declino della potenza egemone, e della emergente coscienza ambientalista critica del modello di sviluppo industriale, i rapporti Brundtland e del club di Roma sui limiti alla crescita iniziarono a divenire promotori di una visione sostenibile dello sviluppo integrando le precedenti analisi con una dimensione ambientalista che metteva in evidenza l’emergere di costi ambientali concepiti come ostacoli alla crescita.. Lo sviluppo sostenible, definito come quel modello di sviluppo che non metterebbe a repentaglio un equo acceso alle risorse delle generazioni future e come postulato dell’inclusione di variabili sociali ed umane a quelle prettamente economiche, ha iniziato a prendere corpo negli anni 90 nell’ambito dei vari forum delle Nazioni Unite come il vertice sulla terra di Rio (1991) e il vertice di Johannsesburg sullo Sviluppo Sostenibile (2001).
Nonostante l’idea di sviluppo sia stata contaminata da differenti variabili ed abbia inizaito ad includere una dimensione più attenta alle dinamiche locali, alla partecipazione, alle questioni di genere ed alle questioni della sicurezza umana, cosi come si evince dai vari report delle Nazioni Unite (human security), UNDP (human development), UNICEF (rights based development), esso resta avviluppato nei dogmi dell’economia neo-classica che perorano i principi di integrazione, efficienza ed ottimale redistribuzione del mercato come cardini dei processi di sviluppo.
La retorica della carenza/mancanza di sviluppo come qualcosa che deriva dalla mancata inclusione tuttavia non mette in evidenza il fatto che i processi di sottosviluppo non sono il fruto di un deficit di incorporazione bensi il risultato di una ineguale inclusione nel mercato e nei rapporti di potere che sottostanno ad esso. Ancora, il mercato è identificato come la panacea di tutti i mali, come l’ottimo allocatore di risorse umane e materiali, qualcosa che deriva per citare Adam Smith dalla naturale propensione dell’uomo a scambiare, barattare etc , e non come un luogo politico, oltre che economico, dove i rapporti di forza si manifestano e dove la dinamiche della competizione, dell’ accumulazione e della massimizzazione dei profitti si strutturano.
Le politiche neo-liberiste di apertura dei mercati, di liberalizzazioni dei movimenti di capitale e merci, di austerità della spesa pubblica, di extraversione dell’economia e le correlate misure di governance hanno dato un grosso impeto ai processi di mercificazione delle risorse naturali quali terra, acqua, cibo. L’incremento delle misure di governance e management delle risorse naturali promosso dalle istituzioni finanziarie internazionali ed incluso nei pacchetti di aggiustamento strutturale come “condizionalità” politica per la rinegoziazione del debito tende di fatto ad estendere l’istituto della proprietà privata a beni comuni fondamentali quali acqua, terra ed altre risorse naturali e a istituzionalizzare il “pay principle” che trasforma in merce, conferendogli un valore economico, le risorse naturali.
I processi di privatizzazione della terra e la relativa espulsione delle comunità indigene e le sue drammatiche conseguenze sulla sicurezza e sovranità alimentare delle popolazioni rurali stanno fomentando l’emerge di una nuova questione agraria, che è assieme quella dei contadini senza terra e di coloro i quali producono per il mercato e quindi sottoposti alle ferree leggi della competizione, e quella del lavoro, nel senso della creazione di manodopera che non trova adeguata collocazione sul mercato e diventa fonte di flussi di migrazione del lavoro.
Le disastrose conseguenze sull’ambiente e sulle popolazioni dell’applicazione di queste politiche di sviluppo ha portato alcuni studiosi a considerare lo sviluppo come un mito, come un’utopia che non funziona (Sachs, 1992). Nella caratterizzazione di coloro i quali sono poi stati identificati come teorici post-sviluppisti, lo sviluppo nasce con il discorso dei quattro punti di Truman nel 1944 nel quale egli identifica per la prima volta una distinzione tra aree sviluppate, l’opulento occidente, e le aree sottosviluppate, il Sud del mondo, che in quanto tali necessitano dell’aiuto e della guida delle prime per incamminarsi sul sentiero dello sviluppo, tracciato in un tempo anteriore dagli stati e dalla civilta occidentale considerati come “pionieri”. La decostruzione dell’idea dominante dello sviluppo è l’oggetto principale di questa scuola di pensiero che se riesce a sviluppare importanti critiche delle dinamiche di riproduzione delle gerarchie di potere analizza però lo sviluppo essenzialmente in termini discorsivi e condivide la periodizzazione mainstream dello sviluppo.
Cio che gli studiosi post-sviluppisti non sono in grado di rielaborare è proprio la continuità della teoria e pratica dello sviluppo con il sistema coloniale di potere e sfruttamento (Cowen, Shenton, 1996). Inoltre, aldila di un romantico ritorno al passato ed al comunitario come se questi non rappresentassero luoghi di contestazione e potere, tale approccio non definisce alternative pratiche di sviluppo che potrebbero rafforzare il controllo dei mezzi di produzione e riproduzione sociale da parte delle popolazioni rurali. Lo stato, nel suo ruolo di facilitatore e mediatore dei processi di accumulazione resta completamente fuori dall’analisi, e difficile dunque definire una strategia sul come ribaltare i rapporti di potere all’interno ed all’esterno dello stato, e tra classi dominanti e subalterne.
Il processo di estensione dei diritti di proprietà intellettuale si inserisce in questo tipo di contesto di mercificazione dove i meccanismi di accumulazione sono intrinsecamente legati alle pratiche di espropriazione e privatizzazione della terra e delle risorse che essa contiene.
Il progetto di approfondimento sui DPI intende dunque da un lato analizzare le forze motrici che sottostanno ai processi di espropriazione e mercificazione dell’agricoltura in generale e delle lotte di resistenza che le comunità rurali (agency) mettono in piedi con l’obiettivo di mantenere l’accesso ai mezzi per la sopravvivenza che per due terzi dei poveri del mondo è costituito dalla terra.


The Role of Transnational Corporations in Production and Trade.

Neo-Colonialism, Modernisation and Dependency. Ch. II in Globalisation and the Post-Colonial order

Making the International : Economic interdependence and political order

Political economy, oil and social resistance in Africa

The History of Development_ From Western Ori

Globalization